Bellezza è terrore: “Dio di illusioni”, di DonnaTartt

 
Sono trascorsi ventiquattro anni da quando “Dio di Illusioni” è stato pubblicato per la prima volta, diventando un grande caso editoriale che ha acceso animi e dibattiti  fiume. All’epoca Donna Tartt era una scrittrice al suo primo romanzo, ed è molto raro  che un esoridio sia così folgorante: 5 milioni di copie è una cifra da capogiro. La nostra enigmatica autrice però è poco prolifica, tant’è che  da allora ha pubblicato solo tre libri: “Dio di Illusioni“, “Piccolo Amico” ed infine nel 2014  “Il cardellino“, con cui vince il premio Pulitzer. E’ proprio con questo ultimo lavoro che scopro la sua esistenza: la critica parla di “ennesimo capolavoro”, ed io non so chi sia quella donna. Ho deciso quindi che dovevo  colmare questa lacuna, partendo dall’inizio. Ed è così che dopo vari tentennamenti mi sono dedicata a “Dio di Illusioni”, non prima di aver letto qua e là alcune recensioni. Sono incappata in tanti commenti positivi e lodi profuse, ma sono in tanti anche quelli che parlano di un libro sopravvalutato di un’autrice standarizzata, un pacchetto costruito ad hoc per lettori ingenui. Mi viene quasi naturale schierarmi dalla parte dei buoni e quindi decido di affrontare la lettura con uno stato d’animo benevolo, alzando molto il livello delle mie aspettative. Per cui aspetto. Aspetto di imbattermi in qualcosa di indefinito che dovrebbe scuotermi, stravolgermi. Ma per 600 pagine e oltre tutto resta sospeso tra le righe e la mia ricerca si rivela vana: continuo a girare pagine su pagine, presa al cappio da una prosa a volte ostica che però non mi lascia scampo. Mi stanca il cevello, Donna Tartt. Io che amo la scrittura sobria ed essenziale mi sono ritrovata in balia di lunghe dissertazioni, di dialoghi ridotti all’osso  ma infiniti per lunghezza di pensiero, di descrizioni di stati d’animo interminabili. Eppure,  nonostante la lentezza di alcuni momenti, non sono mai stata capace di staccarmi da quelle pagine. Ogni volta che riprendevo la lettura alcune immagini, sempre le stesse, mi tornavano prepotenti davanti agli occhi: il Vermont, la neve. La solitudine di quel College così esclusivo. E Bunny, il sacrificio umano di un “Baccanale” finito in disgrazia.
 
La storia si snoda all’interno di una scuola elitaria del Vermont, in cui l’io narrante, Richard, finisce quasi per caso. Non c’entra nulla con il mondo dei college esclusivi, lui che arriva dalla provincia industriale della California, con alle spalle una famiglia modesta a cui non importa granchè dei suoi studi. Compila il modulo di richiesta spinto solo dalla noia e dal desiderio di cambiare scenari, senza seguire particolari inclinazioni se non quella verso gli studi classici. Una serie di circostanze favorevoli gli aprono le porte del prestigioso Hampton College,  facendolo entrare in contatto con una realtà fuori da ogni schema. Non troverà solo ricchezza e prestigio, perchè Hampton dietro la facciata di nobiltà  nasconde ben altro: una  parte insana e malata, che si nutre di boria e senso di superiorità. All’interno delle sue aule esiste un club ancora più esclusivo del college stesso, formato da cinque ragazzi dediti agli studi delle materie classiche e da un professore carismatico ed eccentrico, Julian. Presuntuoso, esteta, è il mentore del gruppo ed è colui che instilla nei ragazzi l’idea che il mondo classico può  e deve rivivere: la società attuale è troppo volgare, prosaica. Non sa cosa sia la vera bellezza, mentre i greci ne avevano il culto:  È un’idea tipica dei greci, e molto profonda. Bellezza è terrore. Ciò che chiamiamo bello ci fa tremare. E cosa potrebbe essere più terrificante e più bello che perdere ogni controllo?” Senza saperlo, senza intuirlo, Julian manipola le loro menti conducendo i suoi allievi verso un imprevedibile epilogo. Desiderosi di fondersi con un’epoca antica e misteriosa, il club dei classicisti si dedica al culto di Dionisio: vogliono osservare e studiare  su loro stessi gli effetti delle forze che si impossessavano degli antichi greci durante  i baccanali offerti al dio.
 
William-Adolphe_Bouguereau_1825-1905_-_The_Youth_of_Bacchus_1884
William Adolphe Bouguereau – The Youth of Bacchus (1884)

 

Nei rituali dionisiaci venivano stravolte le regole morali e sociali del mondo reale. Attraverso invocazioni allegoriche, l’ebbrezza del vino e danze ritmiche ossessive i devoti al culto raggiungevano uno stato di estasi   che aveva il potere di  riconciliare il genere umano con la natura: una sorta di armonia universale che abbatteva le convenzioni stabilite dall’uomo, in cui tutto era lecito.
Riportare in vita il mondo classico diventa per i ragazzi una sfida contro loro stessi, un gioco seducente e pericoloso. Prede di un delirio psicotico causato da alcol e droghe di ogni tipo,  la notte del baccanale la tanto agognata estasi  degenera rapidamente  in depravazione e violenza. Un uomo viene ucciso barbaramente, a sangue freddo. E sarà l’inizio della fine. L’illusione coltivata dal loro senso di superiorità svanisce quella sera stessa, gettandoli in dinamiche sempre più difficili da gestire e da prevedere. Il baccanale traccia un filo rosso di sangue, il male ormai ha ottenebrato le loro fragili menti ed il gruppo poco alla volta va in pezzi. Nessuna terribile bellezza li ha pervasi, la liberazione dei loro istinti  si è rivelata un fallimento, nessun oblio li ha sganciati dalla realtà. L’esaltazione si è trasformata in  senso di colpa, paura, alienazione, follia. Nessuno di loro riesce a reggere il peso di quella notte maledetta e delle conseguenze che si avvicenderanno rapidamente in seguito, come un’ infernale reazione a catena. Julian, una volta giunto a conoscenza degli atti omicidi compiuti dai suoi studenti in nome di un ideale che lui stesso aveva contribuito ad ingigantire e mitizzare, sparisce senza dare nessuna spiegazione. Da’ immediatamente le dimissioni e prende le distanze da quegli studenti che rischiano di macchiare il suo impeccabile curriculum.  Charles diventerà un alcolizzato, Camilla pederà ogni traccia di dolcezza trasformando la sua bellezza eterea in un guscio freddo e vuoto.  Francis, l’omosessuale del gruppo, continuerà ad essere perseguitato dai suoi fantasmi. L’unico che sembra non avere nessun rimorso è Henry, a cui però è riservato l’ultimo tragico, folle atto. Un gesto che compie non perché attanagliato dai sensi di colpa, ma perché la consapevolezza di aver deluso Julian è un dolore troppo grande da accettare, che lo getta nella disperazione più profonda.


Ci troviamo di fronte ad un capovolgimento assoluto dei ruoli: il gruppo degli eletti diventa poco alla volta un manipolo di disperati, in balia degli eventi. Questo scambio di ruoli è presente in tutto il romanzo, dall’ inizio alla fine: assistiamo ad una partita in cui spesso i ruoli si invertono, le maschere si scambiano, vengono gettate, se ne indossano altre, come in una tragedia teatrale.


Richard è “l’outsider” del gruppo,  un giovane provincialotto che all’ inizio pensa di essere stato catapultato per grazia divina in una realtà quasi perfetta: è stato accettato dal gruppo esclusivo degli studenti di Julian, studia materie elitarie, è ospite fisso della residenza di campagna dei gemelli Charles e Camilla in cui trascorre placidi week end a leggere, dormire e bere troppo. Richard mente sulla sua condizione economica e sulla sua vita familiare, perché è convinto di trovarsi di fronte a persone indiscutibilmente superiori a lui e non vuole perdere la sua chance di condurre un’esistenza idilliaca. Tutto sembra semplice, lineare: i gemelli Charles e Camilla, Francis, Henry e Bunny sono ricchi, colti, eleganti, raffinati, intelligenti. Sono i prescelti. Ma la realtà è ben altra cosa e presto scoprirà con terrore di essere stato manipolato da tutti loro,  ed accolto nel club esclusivo soltanto perché  la sua ingenuità  lo rendeva  ideale da raggirare. E’ stato facile per Henry, la mente del gruppo, usarlo come pedina ed aizzarlo contro Bunny.
Bunny: quello strano, quello diverso da tutti loro, l’amico di tutti, quello di cui non ci si poteva più fidare. Lo consideravano nient’altro che un cafone arricchito sempre senza una lira in tasca, che succhiava soldi ad Henry,  incapace di vivere secondo i loro dettami. Volgare, dozzinale, non era in grado di riconoscere ed apprezzare la vera bellezza. Il traditore, l’agnello sacrificale. La Tartt ci fa compiere lo stesso percorso di Richard, ci fa cadere negli stessi tranelli, vittime anche noi dei sottili maneggi del clan. All’ inizio del romanzo abbiamo tutti la certezza che sia Bunny quello sbagliato, quello indegno di stare all’ interno del gruppo. L’autrice ci conduce nella mente di Henry e ci fa assimilare il suo pensiero distorto. Ma poco dopo i ruoli si invertono spaventosamente: Richard prende coscienza di cosa sia realmente il gruppo, della gravità delle loro azioni, di come non ci sia in nessuno di loro una presa di coscienza riguardo al male che li ha investiti, ottenebrati, resi schiavi. Una volta pienamente consapevole esce dal gioco,  un gioco in cui forse non vi era mai entrato del tutto, riuscendo così a vedere gli altri ragazzi per quello che sono realmente: un branco di assassini senza speranza di redenzione. Prende le distanze e si salva da se stesso, mentre per tutti gli altri non ci sarà scampo.
Il romanzo si apre con una scena che, in realtà, è la sua conclusione. Un’immagine che, come accennato all’ inizio, porterò davanti agli occhi fino all ’ultima pagina, esattamente come succede a Richard: Bunny, con il corpo che giace in una posizione innaturale, morto da molte settimane. Ben prima che giungesse il disgelo,  e che  la neve disciolta rivelasse così l’orrorifico segreto. Un segreto marcio, violento, crudele. Quel ragazzo giudicato sbagliato  perché senza fede e senza le virtù necessarie per comprendere l’ideale classico diventa la vittima di giovani fanatici, incapaci di distinguere la realtà dal mondo ideale che si sono costruiti.


Follia omicida, apoteosi del male  che sa plasmare i deboli, che si insinua nelle abitudini malsane, che si camuffa nelle vite ordinarie di persone apparentemente perbene, nella svogliatezza, nella noia, nell’ apatia, nell’ esagerata ricchezza che salva  dalle preoccupazioni quotidiane e che condanna ad un senso di superiorità fuorviante.


Non mi ha cambiato la vita leggere Dio di illusioni. Sarà perchè i vent’anni oramai li ho doppiati, e i romanzi di formazione non mi toccano più come avrebbero fatto una volta. Però è stata una lettura coinvolgente, che mi ha fatto molto riflettere sul male e sulla sua essenza, cosa che mi ha lasciato dentro un’inquietudine difficile da spiegare. Se  vale la pena attraversare il fiume impetuoso di Donna Tartt? Assolutamente sì. Dopo aver riletto quello che ho scritto non ho più dubbi.

Dio di illusioni, Donna Tartt – BUR RIZZOLI

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