Una delle cose che più mi piacciono dell’interazione fra lettori è quando qualcuno scopre un libro poco conosciuto e poco strombazzato dalle case editrici, lo legge, decide che è roba ottima e spaccia subito il prodotto all’interno della blogosfera. Normalmente la sera stessa parto in missione verso la libreria sotto l’ufficio con un nome e un titolo preciso: cerco, domando, e infine rimango a mani vuote. Lo scaffale riservato alla casa editrice a volte nemmeno esiste, il libraio fa facce strane, non ne sa niente…”Devo ordinarlo, mi lasci un numero di cellulare che le invio un sms appena arriva.” Ok. Un’altra missione fallita. Perché in genere si tratta di autori emergenti oppure, chissà perché, finiti nel dimenticatoio. E’ quello che è successo con l’autrice di “Cassandra al matrimonio”, di Dorothy Baker: scoprire nel 2019 la bravura di un’autrice morta nel 1968, grazie ad un libro pubblicato nel 1962, è proprio tipico di chi, come me, ama rovistare tra i libri che nessuno si fila. L’ho letto tutto d’un fiato: una scrittura magnifica che racconta una storia in fondo piuttosto banale. Ma la bravura di uno scrittore sta proprio in questo: rendere straordinario l’ordinario. E’ molto più facile colpire i lettori con trame originali, ottimamente congegnate , o con personaggi stravaganti. Quando invece la trama è scarna, come può esserlo il racconto di un matrimonio che si sta per celebrare in famiglia, con i protagonisti ridotti all’osso, tenere alta l’attenzione è una cosa da maestri. Questo è un romanzo che spiazza per la totale mancanza di reticenza di Cassandra, ragazza fragile e tormentata, che risolve con l’alcol le situazioni che la mettono a disagio, che ha terrore delle relazioni stabili e che non vuole saperne di conoscere il suo futuro cognato. Non si ricorda il suo nome, sa solo che le sta portando via per sempre l’amore della sorella e tanto le basta per odiarlo.
Se avessi scoperto questo libro per caso, girovagando tra gli scaffali, non avrei fatto attenzione ai dettagli della pubblicazione e l’avrei acquistato probabilmente per la bellezza della copertina, oppure mi sarei soffermata sul titolo e, pensando che si trattasse di una storia romantica, l’avrei abbandonato lì. Per fortuna avevo le dritte giuste. Credo di aver capito il motivo per cui questo romanzo viene pubblicato ancora oggi, anche se si tratta di una storia ambientata nel 1960: sembra qualcosa accaduto ieri. Mi ha stupita molto per il suo essere così contemporaneo, per lo stile con cui è scritta e per i temi affrontati che di sicuro non andavano di moda nell’America puritana di quegli anni. Cassandra e Judith sono due gemelle monozigote, che vivono in simbiosi all’interno di un nucleo familiare all’apparenza perfetto: la nonna, vera padrona di casa, è la sintesi dell “Upper Class”; il padre, un professore di filosofia in pensione, ha cresciuto le figlie educandole all’apertura mentale, ad essere libere pensatrici; la madre, morta pochi anni prima, sembra avere lasciato un vuoto trascurabile, che tutti hanno cercato di colmare in fretta.
Essere come noi non è facile […] si tratta di impegnarsi incessantemente per riuscire a essere il più diverse possibile: perché, affinché ci possa essere un ponte, prima deve esserci uno spazio da attraversare. E il vero progetto è il ponte”.
Nonostante l’apparente quiete domestica di quell’estate, fatta di drink a bordo piscina e lunghe nuotate notturne, il mondo interiore di Cassandra è devastato. La famiglia è il suo primo problema, perché le idee progressiste del padre in realtà hanno sortito l’effetto contrario: non già di apertura verso il prossimo, ma di chiusura nei confronti di chi si ritiene naturalmente inferiore. Vive un rapporto simbiotico con la sorella sin dalla più tenera infanzia, ma quando Judith comincia a vivere una vita diversa da quella che Cassandra aveva scelto per loro, per lei è il colpo di grazia. E’ questo l’inizio della fine, l’apertura definitiva della voragine che ha dentro: Judith intravede una propria felicità al di fuori del rapporto esclusivo con la sorella, scegliendo prima un college diverso, poi decidendo di sposarsi. Comincia ad osservare con distacco Cassandra, mentre quest’ultima continua a sentirsi parte di un’unica entità, come se fossero parti di un disegno quasi divino. La bravura della Baker si sente ad ogni riga, nessuna frase lascia indifferenti, ogni parola è messa lì per sezionare con precisione chirurgica il cuore dei protagonisti. Quello dell’autodistruttiva Cassandra, che non vuole trovare il suo posto nel mondo, e quello di Judith, che al contrario cerca in ogni modo di tenere insieme i cocci e di accontentare tutti, nonostante il matrimonio sia una scelta che dovrebbe riguardare solo ed unicamente la sua vita. Cassandra per cercare di lenire la sua sofferenza interiore beve troppo, ha relazioni occasionali e mangia pochissimo: ma la sua famiglia non lo vuole vedere, non vuole capire. Sono tutti troppo per bene. Sono tutti troppo occupati a sembrare felici. Pur con le sue follie, la sua assurda melodrammaticità, i suoi limiti di ragazza viziata è impossibile non provare empatia nei suoi confronti: tutte noi abbiamo incontrato una Cassandra almeno una volta nella nostra vita, o probabilmente per un periodo ne siamo state la sua modesta versione.
Come ha detto l’amico che me l’ha consigliato: non riesco davvero ad immaginare come l’abbiano presa, i lettori del 1962.

Che bella recensione! ❤️
Ti capisco, io vado in biblioteca quasi per lo stesso motivo: per scoprire anche autori/libri che nessuno si fila da tanto tempo ma che magari a me colpiscono subito vedendoli lì esposti, infilati tra gli altri mille mila libri.
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Grazie Alysa!
Anche io in biblioteca mi diverto a fare il topolino, bazzico tra gli scaffali meno frequentati e spesso ho travato delle vere chicche 🙂
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Mi ritrovo molto nella situazione che descrivi, ma quando finalmente riesco a trovare il libro che cerco (spesso, alla fine, acquistandolo on line) mi sembra di aver trovato un raro tesoro 🙂
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