“Ninfa dormiente” di Ilaria Tuti è un romanzo che merita assolutamente di essere letto. L’ho chiamato volutamente romanzo e non thriller perché è senza dubbio molto più di ciò che comunemente viene catalogato in questo genere.
Il thriller si caratterizza per il ritmo sostenuto della narrazione, per il continuo stato di tensione che accompagna il lettore e per i numerosi colpi di scena che non consentono di mollare la presa. Oltre che, ovviamente, per destare in noi paure ed ansie ataviche collegate ad efferati omicidi. L’autore sposta continuamente le sue pedine sulla scacchiera che ha creato per il proprio pubblico, perchè il suo obiettivo è quello di giocare con noi facendoci divertire e raramente si prefigge scopi più impegnativi e profondi. Lo stile sarà quindi quello adatto a raggiungere tale fine: semplice, diretto, essenziale. I dialoghi saranno ridotti all’osso, per lasciare spazio all’azione, mentre l’aspetto “umano” dei protagonisti non verrà approfondito più di tanto. E’ vero però che ultimamente i gialli hanno preso una deriva decisamente psicologica rispetto all’analisi del crimine, tipica di Poirot o Sherlock Holmes: gli assassini sono sempre più da reparto psichiatrico e i commissari di polizia (e similari) sono sempre più tormentati, che Philip Marlowe a confronto è un compagnone.
“Ninfa dormiente” rappresenta una piacevole eccezione a tutto questo. I canoni del giallo classico, così come le evoluzioni dei noir e dei thriller più moderni, vengono rivisitati dall’autrice con un meccanismo nuovo, diverso, spiazzante. Pensi di leggere una storia nera da divorare in un paio di giorni sotto l’ombrellone, mettendo in stand by i neuroni, ed invece ti ritrovi a riflettere sul significato più intimo del dolore, sul peso della storia, sul senso di perdita, sull’istintiva ferocia degli esseri umani. Non è una novità per me, che di Ilaria Tuti avevo letto già “Fiori sopra l’inferno”, un esordio di prim’ordine la cui malìa della narrazione, così atipica nel genere poliziesco, mi aveva completamente soggiogata. “Ninfa Dormiente” ha la stesso centro, lo stesso irresistibile fascino. Le sue pagine non catturano con espedienti mozzafiato, ma con una narrazione inaspettata che prende la pancia, in cui gli ingredienti base del romanzo e quelli tipici dei thriller sono amalgamati in dosi perfette. Prima di tutto c’è lei, il commissario di polizia Teresa Battaglia. Teresa è l’anti eroina per eccellenza: non è più tanto giovane, è in sovrappeso, solitaria, scorbutica e schietta. E’ diabetica, ed ogni santo giorno deve fare i conti con il proprio inferno personale, al quale recentemente si è aggiunto un nuovo, terrificante girone. Eppure Teresa resiste, combatte, perché di cognome fa “Battaglia” non a caso. Il suo eroismo non si esprime attraverso il “physique du role”, ma con l’atteggiamento fiero ed indomito con cui affronta le numerose difficoltà che la vita le ha posto dinanzi. Ha un passato di violenza alle spalle da cui è riuscita a liberarsi pagando uno scotto durissimo, trasformando il dolore in un profondo “sentire” che arricchisce il suo essere poliziotta. Tutto questo bagaglio emotivo la rende un personaggio estremamente affascinante, pieno di sfaccettature, fortemente empatico. Lei, che conosce gli abissi più bui dell’animo umano, riesce ad entrare in contatto con vittime e carnefici come nessun altro, compiendo ad ogni indagine un nuovo viaggio dentro sè stessa. L’empatia di cui è capace Teresa è la stessa che, alla fine, riusciamo a provare anche noi lettori per l’assassino. Anche in questo i romanzi di Ilaria Tuti si differenziano dagli altri di genere, perché i “suoi” cattivi non sono mai creature fredde e spietate, consapevoli delle sofferenze che infliggono; sono uomini e donne con un passato difficile, dal quale sono riemersi a stento, senza poter scegliere. L’ humana pietas prevale sul senso di giustizia, lasciandoci con il cuore sgomento a riflettere sulla vera natura del Male.
Anche questa volta quindi Ilaria Tuti si spinge oltre i dettagli dell’omicidio, un cold case risalente al 1945, per raccontarci la storia di un quadro dipinto con sangue umano. Una storia che affonda le sue radici negli anni terribili della seconda guerra mondiale, un evento che lacerò profondamente il suo amato Friuli, terra di confine che diede vita ai primi focolai di resistenza. Ma c’è molto più di questo. La vera culla di questa miserabile vicenda risale ad un’epoca ancora più lontana, e si perde nei culti ancestrali del femminino sacro, che poneva al centro dell’universo fisico e spirituale la Dea Madre. Prima che le religioni monoteiste facessero la loro comparsa mettendo al centro del credo l’uomo (inteso come maschio), il femminile era rappresentativo di un potere assoluto legato alla creazione. Agli albori delle civiltà la donna era considerata espressione delle forze naturali e divine; in ogni donna era racchiuso il mistero della creazione, ed il suo corpo, fortemente legato ai cicli naturali, era considerato una via d’accesso al trascendente. A tenere insieme i due lembi della storia c’è la Val di Resia, un suggestivo angolo di Friuli la cui tradizione linguistica e culturale si perde letteralmente nella notte dei tempi. Il patrimonio culturale della comunità resiana, rappresentato dalla lingua, dalla musica, dal ballo e da tradizioni antichissime come il carnevale (Pust), ha origini arcaiche ed è preservato dai pochi resiani rimasti, con fierezza e senso di appartenenza. E’ la comunità della Val di Resia la vera protagonista di questo romanzo, a cui l’autrice riserva il suo speciale tributo. La magia della Valle, con i suoi misteri indecifrabili e le sue tradizioni millenarie, aleggia sulle vicende narrate, complice o forse ispiratrice di culti pagani che il mondo civilizzato ha cercato di annientare. Riti potenti in grado di richiamare a sè forze ancestrali, tanto benefiche quanto distruttive e pericolose, se perpetrati da menti disturbate.
Suggestione, misteri, paure ataviche, antichi riti e storie familiari dolorose, il tutto imbastito con una scrittura ricca di fascinazione e classe. Ilaria Tuti ha fatto centro ancora una volta, conquistando definitivamente un posto di prim’ordine all’interno del panorama giallistico italiano ed europeo.
Il meccanismo narrativo utilizzato dall’autrice è perfetto, mi permetto però una sola considerazione: a mio modesto parere, la carne al fuoco questa volta è stata un po’ troppa. In questo secondo romanzo anche il vice del commissario Battaglia, l’ispettore Massimo Marini, acquista un ruolo più attivo nella storia e salda ancora di più il legame con il suo superiore. Anche lui viene caricato di un fardello estremamente doloroso, e dovrà cercare di combattere i suoi demoni interiori esattamente come Teresa e come ogni altro protagonista. Tutti questi conflitti personali e questa sofferenza sottaciuta a mio avviso hanno sovraccaricato l’intensità emotiva della storia, rendendola in alcuni punti opprimente. Inoltre i due filoni principali su cui si dipana il romanzo alla fine non convergono tra loro, restano come sospesi nel vuoto e lasciano un senso di incompiutezza che avrei preferito non trovare. Diversi sono i punti rimasti oscuri, ma magari chissà, l’autrice ha volutamente omesso di svelare tutti i dettagli per preparare il nuovo terreno di indagine del Commissario Battaglia e della sua squadra…Speriamo!

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