Un viaggio nella Torino prebellica: “Il morso della vipera” di Alice Basso

Doverosa premessa: io adoro Alice Basso. L’ho conosciuta per caso ad una presentazione in libreria qualche anno fa ma i suoi romanzi con protagonista Vani Sarca, la ghost writer detective per caso, li ho letti solo tra il 2019 e il 2020 (sono cinque e li ho acquistati tutti in blocco, poi li ho centellinati). La adoro perché scrive benissimo, è molto colta, ha una passione sfrenata per la musica rock, gli hard boiled americani degli anni trenta e possiede una tagliente ironia ed un acume spiccato che riesce a trasferire ai suoi protagonisti con grande abilità. Leggere i suoi libri equivale per me ad un vero e proprio spasso, anche se non mancano gli spunti di riflessione e i momenti più seri ed introspettivi. In ogni romanzo traspare il suo grande amore per la letteratura, in in ogni sua forma. Secondo Alice i libri ci salvano, non in senso fisico ovviamente, ma in senso metaforico, perché il più delle volte ci salvano da noi stessi e dalla nostre piccole miserie quotidiane. Illuminano le nostre vite e la rendono migliore, infinitamente più ricca, allargano l’orizzonte della nostra scarsa visuale e spesso spalancano porte che non sapevamo nemmeno di aver chiuso. Dopo la conclusione della saga di Vani Sarca credevo che non fosse più possibile per l’autrice replicare creando un nuovo personaggio altrettanto originale e coinvolgente, con la stessa combinazione di leggerezza e sagacia. Ed invece mi sbagliavo, perché la nuova protagonista femminile di Alice Basso è, se possibile, ancora meglio. Anche con l’ambientazione ha fatto un passo avanti, perché il racconto è ambientato nella Torino degli anni trenta, precisamente nel 1936, e tutti noi sappiamo quanto cimentarsi in un romanzo storico sia decisamente più ostico per un autore.

In quegli anni l’Italia ancora non aveva capito bene se c’era o no da fidarsi di Mussolini, che i torinesi segretamente chiamavano “il Cerutti”, beffeggiandolo come se fosse stato un semplice governante del momento, come tanti ce n’erano stati prima di lui e tanti ce ne sarebbero stati dopo. Era l’Italia in cui il fascismo “ha fatto anche cose buone”, come le bonifiche e l’ammodernamento delle città, decorate con svettanti Torri Littorie che parevano grandi simboli fallici, trionfanti baluardi della virilità del perfetto patriota. Era l’Italia che ancora aleggiava sospesa in quella specie di limbo in cui “i fascisti ci hanno anche aiutato, cosa dovevamo fare…” , in cui “la rivoluzionaria” idea di società e famiglia, che premiava chi sfornava figli da gettare in pasto al neo proclamato Impero Fascista, era considerata giusta e perfettamente in linea con i precetti religiosi che volevano le donne sottomesse al marito, con l’unico scopo di allevare una prole numerosa ed educarla con rigore marziano. Lavoravano solo le ragazze nubili di umili origini che dovevano aiutare le famiglie in difficoltà e le vedove della grande guerra: nessun marito sano di mente avrebbe mai concesso alla propria moglie la libertà di lavorare, perché il lavoro creava indipendenza economica, e da lì a quella mentale il passo era breve. Troppo breve per un buon fascista. Questa è l’atmosfera che gravita intorno ad Anita Bo, una ragazza di ventun anni figlia di un commerciante locale, che in vita sua non ha mai fatto altro che essere bella. Ma non carina, proprio bella da mozzare il fiato, di quelle clessidre viventi con i capelli neri e lucidi, gli occhi enormi e una bocca a cuore fintamente truccata. E’ stata allevata con la convinzione che, essendo così sfacciatamente bella, poteva anche sfangarsi dalle fatiche scolastiche e restare irrimediabilmente ignorante e stupida, ché tanto per trovare un buon marito l’intelligenza e la cultura non erano doti necessarie. Il problema è che Anita stupida non lo è per niente, anzi. Diciamo che nessuno (tanto meno lei stessa) si è mai preso la briga di coltivare il suo atrofizzato cervellino, che tutto è fuorché un terreno arido. Solo la sua migliore amica e la sua ex insegnante di dattilografia hanno intuito che dietro l’aspetto da bambolina di Anita si nasconde qualcos’altro, un territorio inesplorato che a tratti si palesa con inaspettati colpi di astuzia ed intuizioni argute. E’ per questo che Anita, nonostante non conosca nemmeno la metà dei riferimenti culturali che comunemente utilizzano le sue amiche, è un’ottima compagnia per due donne così moderne e anticonformiste come Clara e Candida. Clara, ex compagna di classe di Anita, è bruttina ma estremamente intelligente e curiosa, e per mantenersi ed aiutare la famiglia lavora come dattilografa alla Reale Mutua. A Clara piace il suo lavoro, ama la sua indipendenza che le consente di non essere costretta a ripiegare su un uomo per vivere e ancora di più adora leggere, soprattutto quei libri così interessanti che le passa Candida la domenica pomeriggio. Candida, professoressa di dattilografia alla scuola per segretarie di San Donato, è una cinquantenne nubile fieramente contraria al regime, che fuma come una ciminiera e che nasconde in una cassapanca col doppio fondo i libri proibiti censurati dal Duce.

Anita, appena chiesta in moglie dall’aitante Corrado, che pare sbucato fuori da un collegio della gioventù Hitleriana, presa dal panico a sentire i suoi discorsi sulla quantità di figli che intende mettere al mondo insieme a lei, prende tempo e risponde all’ esterrefatto fidanzato che sì, il matrimonio va bene, però prima vorrebbe provare a lavorare per un po’ di tempo. Ed è così che Anita, imbranata com’è in qualsiasi cosa pratica della vita, riesce ad intortare Corrado (lui sì che è bello ma un po’ tonto) e a farsi assumere in una piccola casa editrice come dattilografa. Sbaragliata l’esigua concorrenza con un trucco da oscar comincia a lavorare alla rivista Saturnalia, che traduce e pubblica i racconti hard boiled direttamente provenienti dagli Stati Uniti. Un genere nuovo, che il pubblico italiano dimostra di apprezzare molto, seppur con le correzioni imposte della censura del regime. Anita comincia così a sondare il mondo della parola scritta, subendone il fascino e scoprendone il potere, fino ad appassionarsi realmente a quei gialli americani tutto fumo, whisky e piombo. Lei, che non ha mai letto un giallo prima d’ora, comincerà ad addentrarsi nelle menti dei detective in impermeabile che fanno ogni giorno a pugni con la vita, fino a quando si ritroverà a dover risolvere lei stessa un caso di omicidio. Non racconto di più perché non voglio spoilerare nulla, posso solo concludere rinnovando il mio plauso ad Alice Basso, che con grande dovizia di particolari ha ricostruito perfettamente un’epoca storica difficile, rievocandone le atmosfere, gli usi e i costumi in modo così verosimile che più volte mi sono stupita ritrovandomi ai piedi le sneakers anziché il mezzo tacco con la fibbietta, e i capelli come una massa informe anziché solcati da una perfetta ondina ricoperta di lacca.

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