Attraverso gli occhi di una madre: “Amatissima”, di Toni Morrison.

Non è facile parlare di questo romanzo, per tanti motivi. In parte perché, essendo molto conosciuto, trovare qualcosa di originale con cui commentarlo è davvero impossibile; ma la vera difficoltà sta nel provare a trascrivere il vortice di emozioni che questa lettura ha sollevato in me, lasciando tracce indelebili. Oltre ad essere un importante romanzo di denuncia sociale, che affronta un tema di portata colossale come la schiavitù negli Stati Uniti D’America prima della guerra di secessione, è anche (e forse soprattutto) una finestra spalancata sui suoi aspetti più intimi, sulle sue ripercussioni psicologiche, su quei patimenti interiori che non furono meno dolorosi e traumatici di quelli fisici. In donne come Sethe, la protagonista, la sofferenza psichica segnò l’ esistenza molto più dei colpi di frusta che le disegnarono sulla schiena un albero di cicatrici, solchi di dolore e memoria con cui lei ormai si identificava. Quei rami in rilievo sul dorso, protesi al cielo come in una supplica, non le consentivano di dimenticare mai, anche nei giorni più sereni della sua vita di donna libera. Come quando al 124 di Bluestone Road si presentò Paul D., un ex schiavo che condivise con Sethe la giovinezza nei campi di cotone, con il quale instaura un legame affettivo. Paul D., con le sue promesse d’amore ed il suo intenso desiderio di vivere, manda in frantumi il precario equilibrio psichico di Sethe, costringendola a fare i conti con un passato che inconsciamente aveva rimosso, solo per potere sopravvivere.

La vita nella piantagione di Sweet Home, seppur in condizioni di schiavitù, era tutto sommato tollerabile. I padroni, una coppia benestante molto vicina agli ambienti abolizionisti, erano contrari alle percosse e consentivano ai loro schiavi di sposarsi con rito religioso, di crearsi una famiglia e di allevare i propri figli nella cristianità. Sethe ed Halle si innamorano e mettono al mondo tre bambini, due maschi e una femmina. Poco dopo la nascita della bimba però, in seguito alla morte del padrone e alla malattia della padrona, le loro condizioni di vita cambiano drasticamente; sarà il sorvegliante, un uomo maligno e becero, a prendere in mando le redini della piantagione e con lui inizierà un periodo di terrore, fatto di violenza e soprusi. L’orrore dei linciaggi, diventato banale quotidianità, spinge Sethe ed Halle a pianificare la fuga: l’idea di crescere i loro figli sapendo già che sarebbero finiti impiccati o stuprati era qualcosa di intollerabile, contrario ad ogni sentimento umano. Il racconto comincia diciotto anni dopo quel disperato viaggio verso la salvezza, e Sethe ormai è completamente integrata nella piccola comunità di Cincinnati, nell’ Ohio libero. Dopo essersi ricongiunta con la suocera Baby Suggs, affrancata dal figlio Halle anni prima, cominciò a lavorare come cameriera in un ristorante della città ed in seguito alla morte dell’anziana donna continuò a vivere al “124” insieme alla figlia Denver, in un clima di apparente tranquillità. Si percepisce subito infatti che la loro non è una quiete domestica bensì una immobilità innaturale, una staticità mantenuta integra per nascondere un male oscuro, negato, sottaciuto. Dal giorno in cui Sethe arrivò in Bluestone Road una presenza malefica cominciò a manifestarsi tra le mura di casa, dando il tormento ai suoi familiari: il fantasma di una bambina. Un’entità ostile piena di rancore, in cerca di vendetta, dalla quale i due figli più grandi scappano appena possibile e con la quale Baby Suggs non vuole lottare. Solo Sethe pare ignorare il fatto che si tratti di sua figlia, la bimba di pochi mesi che riuscì ad affidare insieme ai due maschi a schiavi fuggitivi, con l’idea di raggiungerli appena possibile, insieme al marito. Halle però non riuscì mai a raggiungere l’Ohio e lei fu costretta a fuggire a piedi attraversando due stati incinta dell’ultimo genita Denver; partorì sulle rive del fiume, tra le assi di una barca a remi, ad un passo dalla casa della suocera. Baby Suggs viveva presso una ex stazione della “Ferrovia Sotterranea”, la rete clandestina che aiutava gli schiavi a raggiungere i paesi abolizionisti, ed era diventata negli anni un vero e proprio punto di riferimento per l’intera comunità nera di Cincinnati, una specie di santona che predicava amore e fratellanza e che accoglieva tutti con grande generosità. Prese con sè i tre nipotini e poi, diversi mesi dopo, accolse Sethe con la neonata Denver. La ritrovata unione familiare durò quanto un temporale estivo, perché l’orrore dal quale Sethe era fuggita non se ne era mai andato via, era dentro di lei e la stava già aspettando sulla soglia della libertà. Non si rese conto della sua presenza, e di quanto le stava divorando il cuore: cambiò forma, avvelenò i suoi pensieri e diventò tutt’uno col suo amore di madre.

“Il tuo amore è troppo grande” .

“Troppo grande?” disse lei,

“L’amore o c’è o non c’è. L’amore piccolo non è amore per niente”

La storia che Toni Morrison ci racconta non è lineare, non esiste una trama con un suo inizio, un centro ed una conclusione in ordine logico. Poco alla volta emergono frammenti di memoria che una scrittura immaginifica e potente rimette insieme, dando vita a pagine di poesia pura, anche se intrise di un dolore inimmaginabile. L’elemento razionale, così come siamo abituati a trovarlo in un romanzo classico, è poco presente. I fatti più cruenti quasi mai vengono descritti nei loro particolari, ma vengono fatti intuire, percepire attraverso gli altri sensi. Riusciamo a sentire il dolore di Sethe sulla nostra pelle non perché lo leggiamo attraverso le frustate che il sorvegliante, ormai senza più nessun tipo di controllo, le infligge dopo averle adagiato il grembo in una fossa per non nuocere al bambino, riservandole una premura quasi grottesca. O durante lo stupro di gruppo al quale sempre lui acconsente per punirla, quando fu scoperta rientrare alla piantagione dopo aver messo in salvo i tre figli. Lo avvertiamo come una nube nera che incombe, lo intravvediamo nei suoi ricordi che lentamente, quasi strisciando, risalgono dall’abisso in cui lei stessa li aveva ricacciati per poter continuare a respirare, per potersi alzare al mattino, andare a lavorare e badare all’unica figlia che le era rimasta. La mente di Sethe era volata altrove, oltre il suo passato inconfessabile, in un limbo in cui la realtà arriva sconnessa, priva di consapevolezza. I due ragazzi più grandi se ne erano andati via da tempo, vinti da quella forza oscura che impestava la loro casa, che pure sapevano essere la sorellina uccisa anni prima dalla loro mamma. Baby Suggs si lasciò morire poco dopo, senza più la forza di predicare un bel niente dopo quello che aveva visto fare a Sethe, avvelenata irrimediabilmente dall’uomo bianco. La sola, vera ed unica disgrazia che esisteva nel loro mondo di negri. Bisogna prendersi del tempo e farsi trasportare dalla scrittura della Morrison, non perché sia facile perdersi tra i numerosi salti temporali, perché lei ci tende sempre la mano e ci riaggancia quando stiamo per perderci, ma perché ogni parola ha il suo peso ed il suo significato, che va digerito, compreso e collocato al suo posto. Il ritmo della narrazione ha la dolcezza malinconica dei sogni, che ci avvolge e ci protegge mentre in punta di piedi entriamo dentro l’orrore di un infanticidio e delle sue devastanti conseguenze. Un gesto estremo compiuto per disperazione, per troppo amore, per difendere la parte migliore di sé dallo scempio di un corpo che sarebbe stato martoriato senza pietà, ucciso per una risata di troppo, impiccato per una salsiccia rubata, stuprato per togliersi le voglie. E lo fa con doveroso rispetto, senza permetterci mai, nemmeno per un solo istante, di giudicare. Un romanzo grandioso, pieno di suggestioni e di metafore sulla condizione umana, un inno all’amore materno che diventa il simbolo della vita stessa, un canto antico che racchiude tutto lo strazio di un popolo morto dimenticato, senza nome, senza ricordi, senza nulla. Il giorno del funerale Sethe non aveva abbastanza denaro per far incidere la lapide con il nome di battesimo di sua figlia, e da quel giorno l’epitaffio incompiuto “Mia Amatissima” si trasformò nel nome di una bambina mai diventata grande, senza passato e senza futuro. Il simbolo di un intero popolo.

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